MEMORY

Aprile 11th, 2010 § 0 comments § permalink

Monumento "Avis", cimitero di Rimini

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Museo delle genti d'Abruzzo, Pescara

Anni Ottanta

Aprile 5th, 2010 § 0 comments § permalink

Bologna, Galleria Mascarella
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Il lavoro di Antonio Marchetti pur appartenendo ad un’area dichiaratamente post-moderna trova un suo spazio autonomo in una forma di “lucida violenza”, forse derivatagli da una sorta di “disincanto per l’opera”, con cui affronta il foglio o la tela.

La consapevolezza di aver oltrepassato la soglia del “moderno” e del vivere in un “dopo”, la coscienza di iniziare il proprio lavoro da un azzeramento dei valori, lo porta a produrre una vitalità espressiva sdrammatizzata nelle soluzioni figurative e caratterizzata da umori psicologici lasciati al loro libero scorrere senza l’incubo del disvelamento.

La comunicazione si fa perentoria e priva, finalmente, di ogni sorta di “citazionismo” vuoi colto oppure incolto che ormai da tempo ci affligge. L’atteggiamento espressivo di marchetti, caratterizzato da una ridotta grammatica segnica, non è nemmeno del tipo “selvaggistico” o “vitalistico barbarico” ricorrente ma gli deriva da un uso sofisticato dell’iconografia del fumetto: lo stesso utilizzo di una titolazione, non didascalica ma come parte integrante dell’immagine, sottolinea questa provenienza.

Va subito detto che si tratta di un uso “ironico” del fumetto quindi non derivato dal gusto per il revival ma da un suo utilizzo, potremmo dire, “strategico”.

"Rapido e catastrofico"

La formulazione si fa automatica e le associazioni producono una sorta di fissione che genera personaggi incredibilmente dotati di vigore energetico che stanno tra “Braccio di ferro”, il “Signor Bonaventura” e il giovane marinaio di “Querelle”.

In una situazione dove pare che l'”immaginare” ci sia fatalmente precluso e che l'”operare” altro non sia se non la produzione del nulla diventa sempre più urgente ricercare il lato nascosto delle cose: quel ‘”meraviglioso” che tanto manca al nostro quotidiano; Marchetti lo scopre nelle qualità segrete del dettaglio: ora nella porta spalancata di una casa dalla quale fuoriescono e si liberano le cariche energetiche interne, ora nei piedi danzanti della coppia del suo “colpo di danza” che si pongono come i poli irradianti di un emblematico arco voltaico.

Vittorio Mascalchi. 1983



"L'uomo dalle 99 malattie"

"Double bind"

"Double bind 2".

"Double Bind 3"

©Photo Grazia Branco

Monumenti in scatola

Aprile 4th, 2010 § 0 comments § permalink


A prima vista potrebbe sembrare una galleria di ritratti. Ed in effetti, in questa serie di coloratissime immagini non si fatica a individuare lineamenti e fattezze di volti, benché le loro espressioni siano a dir poco sfuggenti. Tuttavia qualche cosa in essi ci é familiare. Si tratta indubbiamente di visi conosciuti, ma dove e quando sarebbe difficile dirlo.

La medesima impressione si prova allorché si rivedono degli amici persi di vista da tempo, i tratti del volto dei quali – sia pure dimenticati e sepolti – hanno continuato a soggiornare presso di noi, e ora, richiamati d’improvviso alla mente dalla presenza vivente di colui che li reca, riaffiorano proprio così come erano allora, mentre solo in minima parte coincidono con la loro versione attuale. Allo stesso modo queste facce – lo sentiamo, più ancora di quanto riusciamo a saperlo – le abbiamo già incontrate da qualche “altra”parte.

Forse questi volti hanno animato una volta i nostri sogni. Di certo, hanno qualche cosa a che fare con la nostra infanzia. Se non proprio nella configurazione attuale, un pò rimescolati e certo meno ordinati, sono stati nostri compagni di giochi. Per essi abbiamo provato assieme affetto ed invidia. Infatti non c’era cosa che riuscisse loro più facile di quella che tutti i bambini e spesso anche gli adulti con grande pena cercano senza sempre trovarla: essere precisamente e semplicemente se stessi. Questa loro capacità destava la nostra ammirazione e ci faceva soffrire. Sarà probabilmente per questo che tanto volentieri giocavamo con loro: per condividerne o strapparne il segreto.

Ma come non è possibile apprendere la rotondità da una palla o gli sgargianti colori da pennarelli e matite, così non ci fu mai modo di farsi svelare l’arcano. Noi crescevamo continuando a non sapere chi fossimo, mentre i nostri giochi rimanevano sempre se stessi. E non diversamente accadeva a quegli oggetti un pò strani che avevano il potere di colpire la nostra attenzione, e che qui puntualmente ritroviamo: serrature, appendiabiti, molle, guarnizioni di gomma, anelli per tende, pomelli, bastoncini di legno, bacchette di metallo o di plexiglas, tessere di rivestimento, decorazioni di mobili, oggetti in ceramica, orecchini, carte per vasi, cristalli per lampadari, fusi per cucito, bottoni, caratteri tipografici in bronzo o in acciaio, coni per pasticceria, metri da muratore, cinghie di trasmissione, oltre naturalmente a pezzi di lego e meccano, proiettili di gomma per pistole ad aria compressa, giocattoli di latta e di plastica, carte colorate e biglie di vetro.

Solo apparentemente tuttavia questi oggetti, con la loro immutabilità, con la loro ferrea costanza in se stessi, avevano e hanno divieto d’accesso alla vita: certo, la loro esistenza avrà magari meno intensità di quanto ne reputiamo necessaria per riconoscere a qualche cosa di essere vivo; cosicché, dal nostro punto di vista, essi conducono forse una vita in sordina, “minore”. Ma essa dura in compenso molto più a lungo di altre, come tutto quel che è inorganico rispetto all’organico. Ciò non significa che anche gli oggetti non muoiano: anzi, è proprio il loro cessare di esistere che sta a dimostrare che hanno vissuto davvero. Infatti, soltanto ciò che ha la vita ha diritto pure alla possibilità di morire.

Le cose che qui vediamo raccolte non sono ancora defunte, ma certamente hanno alle spalle una lunga esistenza. L’età nella quale attualmente si trovano è quella senile in cui, di più ancora che compiere le azioni per le quali sono state create, viene loro richiesta una sedentaria attività di memoria. Per un compito simile, sono più che indicate le cassette in cui sono state riposte: in una tale posizione di decubito, del resto, giacciono tutti i nostri ricordi, non isolati e rinchiusi ciascuno dentro il proprio cassetto, bensì inseriti all’interno di una comunità dove continuano a vivere. In questo contesto l’artista, piuttosto che l’infaticabile suscitatore del nuovo, figura come l’amministratore giudizioso del mantenimento di ciò che già esiste. La sua importanza, comunque, non diminuisce con questo. Non fosse per lui, rimarrebbe ben poca cosa delle costellazioni di oggetti che abbiamo dinanzi: così, quello che in esse riveste il ruolo di bocche, di nasi, di occhi, di orecchie, si presenterebbe confuso in quel gran bazar sotterraneo dentro il quale precipitano tutti gli oggetti allorchè hanno smesso di essere utili. Le geometrie tremolanti secondo cui si dispongono sembrano originate proprio dal brivido che giustificatamente attraversa ciò che è sfuggito all’immondizia quasi per caso.

Ma sbaglierebbe chi scorgesse in questi assemblaggi materici il passatempo del frequentatore di discariche o il semplice bricolage dell’artista, tardo epigono di Max Erst o Kurt Schwitters: l’insistenza cocciuta con cui vi è ricercata e trovata la simmetria, piuttosto, fa di queste composizioni dei veri e propri monumenti alle cose, delle memorie portatili di una specie di oggetti in via di estinzione. Monumentale, e perciò memorabile, infatti, non è quanto possiede la connotazione del grande, bensì quanto coniuga in un unico ordine la logica delle singole parti alla necessità dell’intero. Ma ancora di più, la memoria che qui viene salvata non è quella soltanto di una manciata di vecchi arnesi caduti in disgrazia, ma in una qualche misura la memoria stessa in senso più lato.

Il fatto é che perchè essa si eserciti ha bisogno di fissarsi a degli oggetti precisi, proprio come una forza che per potersi applicare necessita almeno di un punto. Ciò che questi variopinti supporti tengono desta in noi in qualità di memoria, dunque, è la distanza che ci separa da ciò che eravamo e che non possiamo in ogni caso più essere. Perchè di una cosa almeno siamo sicuri:di non essere-per il solo fatto di lasciarci commuovere da questi balocchi – eterni fanciulli. Piuttosto attraverso di essi scorgiamo l’ombra di noi stessi bambini che in un semplice gioco scoprivamo per la prima volta la vanità di tutte le cose:

“Giro giro tondo

che ci faccio in questo mondo?

Ci faccio quel che posso

con il mio groppone addosso

quando non ne posso più

piglio le gambe e mi butto giù”.

Marco Biraghi


… Nascono dallo stato di vuoto di un annoiato collezionista di cose inutili, recuperate dal fondo del’inessenziale e della marginalità, anche dalla spazzatura. Il progetto si è delineato spontaneamente in tracciati di volti, archetipi di volti, maschere, dominati dal demone della simmetria e dello specchio, che hanno aiutato l’idea compositiva, il farsi di una “regola”, per così dire.

Campi

Aprile 4th, 2010 § 0 comments § permalink

Stefano Levi Della Torre

We know but we know not…

There was a low grey wall, of stone or maybe blocks of concrete; above darkness. From the wall, a long thin hand descends slowly, almost to the ground, but the body cannot be seen, it is on the other side of the wall. I remember having had this dream twice when I was a child. I was impressed not just by the scene but also by its lack of colour. It was grey without strong contrasts. At that time we had gone to Serra di Ivrea, under a false name to escape anti-Semitic persecution. While I dreamt, the extermination in the concentration camps was taking place, but it would be presumptuous to think that this was a prophetic dream. It was more a childish nightmare. Now I am surprised by its consonance with these drawings by Antonio Marchetti, in carbon grey and the signs reduced to symbol: the “little houses” enclosed within a fence, which we know to be electrified, evoke a false shelter and a false intimacy: beneath the childlike sloping roofs there are the concentration camp blocks, the cremation ovens and the gas chambers.

Those of us who have never lived through extreme experiences know, but know not, the hunger and thirst, the suffocation of people packed into sealed wagons and gas chambers, the slave labour until exhaustion and death, the torture without escape. We cannot experience the smell of the concentration camps, nor the cold without shelter, the deadly harshness of a meaningless order, the terror of every minute. We know, but know not, the solitude of the mass of victims, where the prisoner’s enemy was also the other prisoners. “The world into which we have plunged – wrote Primo Levi of the submerged and the saved – was terrible but also indecipherable: it conformed to no model, it was around us but also within us, the ‘we’ lost its boundaries, the adversaries were not two. A single frontier was not distinguishable but many and confused, perhaps innumerable, one between each of us”. But this difficulty in distinguishing good from evil is not only between each of us but also within each of us. The problem is of the sense of guilt of the survivors, who suspect that they are alive at the expense of others. To have, in surviving, supplanted the others, singly or innumerably, and so deny their innocence. The victim is not such by guilt, but nevertheless is not innocent, because implicated in the same history as the executioner. Both are part of the same human substance, both a contiguous possibility of the human kind. “The righteous among us (…) have felt remorseful for the evil that others, and not them, have done. They have been involved because they felt that what had happened around them and in their presence, and in them, was irrevocable, demonstrating that man, mankind, in other words us, was potentially capable of inflicting an infinite amount of pain: see no evil, hear no evil, do no evil”.

Which of us can say how we would behave if circumstances beyond our control, choice or failure to choose, had turned us into the persecuted or the persecutor? Would reason guide us? But the deportations, the concentration camps and the exterminations were rationally organised. Compromises with power and circumstances did not lack rationality, calculation. It is the perverse presumption of being irrational, if irrationality is the Nazi (or even only ethnic-nationalist) obsession with “living room”. Yet there are processes such as the increase in population and the precariousness of water, air and soil resources, that seem to expand exponentially in a limited environment: the radius of the Earth is in fact delimited. Which human groups are worthy of living and which not, who is to be excluded and who included within the physical, economic and legal confines of life itself, is a question that has been asked continuously throughout history, resulting in atrocious conflicts. Technological and administrative extermination could, in the future, appear to someone to be a rational solution and Auschwitz is a prophetic anticipation. Will memory guide us? We are right to exalt memory against forgetfulness. What has happened over the centuries – the stake, the expulsions and the pogroms… – convinces many that Nazism represents an aggravated manifestation of past barbarities. But it is not just that. The “final solution”, genocide, was not believed in by many for far too long because memory did not supply examples. Memory, in fact, is also pre-judice. It helps us to predict the predictable and this is reassuring, but it can prevent us perceiving the unpredictable, and this is deceptive. Against ferocious beliefs, trust in the memory of what has happened “so that it does not happen again” is not enough, if there is not the memory of the unpredictable as well, the consciousness of the fact that history never fails to surprise us, for good or evil.

We know a great deal about the concentration camp. It is one of the most documented of historical facts and yet it remains one of the most inexplicable of experiences. It is another world with respect to ours. The witness has assumed the task of translating into our civil language that other world and that other language. Two worlds that exclude each other – ours and that of the concentration camp – and yet each presents themselves as a possibility of the other. After Auschwitz we have returned to civilisation but Auschwitz was created by civilisation, showing itself to be one of its possible results “things that exist were introduced irrevocably into our world”, wrote Prino Levi, and since it has happened, it can happen again. We have seen this in other places and in other terms But the difficulty of crossing the boundary between incompatible universes is not just ours. It is felt by the witnesses themselves. Primo Levi told us, a few months after his return, and wrote in If This is a Man, “Today, on this real day today, in which I am sitting at a table and writing, I myself am not convinced that these things really happened”.

This real day, today… And yet, at the end of the respite, it is today that suddenly appears illusory like a recurrent dream vision, “I am back in the concentration camp and nothing is real outside the concentration camp. The respite was a brief vacation of the senses, a dream: the family, nature in flower, home (…) I hear a well-known voice; a single word, not imperious, short and mild. It is the dawn command in Auschwitz, a foreign word, feared and awaited, “Wstawc”. This is how the story of the return finishes, once again in Auschwitz. Return is nothing other than a respite. In dream we understand the terrible transfiguration of good and evil, the shadow of Auschwitz behind the “real today”. The disappearance of today into the nightmare of Auschwitz. Much of what we know about this or other massacres do not give us this sensation. We know but we remain distanced, either to defend ourselves from anguish or, more simply, because of the impossibility of understanding the extreme. Perhaps what can provide us with a more intimate impression comes from our childish nightmares, reawakening in us the anguish a child is able to feel when he imagines all the possible terrors of the dark, every possible transformation of what is familiar and safe into something foreign and tremendous. The neighbour who unexpectedly becomes a mortal enemy, a population, among whom one has lived, turning into persecutors, a country and a city that suddenly become aggressive: mutations that have accompanied the massacres of the past and the present. Even art finds it hard to represent the horrors of similar transformations. Picasso did not succeed in Guernica, where nothing is elusive, everything is in theatrical light and the anguish of mutation is missing because everything has already mutated. Goya succeeds, or Otto Dix in his drawings of the first World War. Because the horrible spectacle is not sufficient to involve us in the tragedy. It is rather something insinuating and unutterable that has an impact upon us, and touches us within, with that primary anguish of existence and survival that we have intuited since childhood, like the face in the shadow of what is normal or the immanent possibility of the inversion of the world, a transfiguration in pain and destruction of what is alive.

Stefano Levi Della Torre

Sappiamo ma non conosciamo…

C’era un basso muro grigio, di pietra o forse di blocchi di cemento; al di sopra, una caligine scura. Dal muro una mano magra, allungata, scendeva lentamente quasi fino a terra, ma il corpo non si vedeva, era al di là del muro: ricordo di aver fatto per due volte questo sogno quando ero bambino; mi aveva impressionato non solo per la scena, ma anche per la sua singolare mancanza di colore. Era grigio, senza forti contrasti. A quel tempo eravamo sfollati sulla Serra di Ivrea, con falso nome per sfuggire alle persecuzioni antisemite. Mentre sognavo era in corso lo sterminio nei Lager, ma sarebbe presuntuoso pensare che quello fosse un sogno veggente. Era piuttosto un incubo infantile. Ora mi sorprende la sua consonanza con questi disegni di Antonio Marchetti, coi loro grigi a carbone e i segni prosciugati fino al simbolo: le “casette” recluse entro un recinto che sappiamo elettrificato evocano un falso riparo e una falsa intimità: sotto i tetti infantilmente spioventi sono i blocchi del Lager, i forni crematori, le camere a gas.
Noi che non abbiamo vissuto esperienze estreme sappiamo ma non conosciamo quella fame e quella sete, il soffocamento di gente stipata nei vagoni piombati e nelle camere a gas, il lavoro schiavo fino all’esaurimento e alla morte, la tortura senza scampo; non conosciamo gli odori del Lager, né il gelo senza riparo, né il rigore mortale di un ordine insensato, né il terrore d’ogni minuto; sappiamo ma non conosciamo la solitudine nella massa non solidale delle vittime, dove nemico al recluso era anche l’altro recluso: “Il mondo in cui ci si sentiva precipitati – scriveva Primo Levi ne I sommersi e i salvati – era sì terribile ma anche indecifrabile: non era conforme a nessun modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il “noi” perdeva i suoi confini , i contendenti non erano due, non si distingueva una frontiera ma molte e confuse, forse innumerevoli, una fra ciascuno e ciascuno”. Ma questa difficoltà di distinguere il bene dal male non si pone solo fra ciascuno e ciascuno, ma anche all’interno di ciascuno: è il problema del senso di colpa del sopravvissuto che sospetta di essere vivo invece di altri, d’avere, nel sopravvivere, soppiantato gli altri, singoli o innumerevoli, e perciò nega a se stesso l’innocenza. La vittima era tale non per colpa, e tuttavia non risulta innocente, perché implicata nella stessa storia del carnefice: entrambi partecipi della stessa sostanza umana, entrambi possibilità contigue dell’umano. “I giusti tra noi (…) hanno provato rimorso per la colpa che altri e non loro avevano commesso, in cui si sono trovati coinvolti, perché sentivano che quanto era avvenuto intorno a loro ed in loro presenza, ed in loro, era irrevocabile (…); avrebbe dimostrato che l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore: basta non vedere, non ascoltare, non fare”.

Chi di noi può dire come si sarebbe comportato, come si comporterebbe se cause di forza maggiore e le proprie scelte o non scelte lo buttassero sul versante dei perseguitati o su quello dei persecutori? Sarà la ragione a guidare? Ma la deportazione, il Lager, lo sterminio erano organizzati razionalmente; i compromessi col potere e con le circostanze non mancano di razionalità, di calcolo. E’ il presupposto perverso ad essere irrazionale, se irrazionale è l’ossessione nazista (o anche solo etnico-nazionalista) per lo “spazio vitale”. Eppure ci sono processi come l’aumento della popolazione, la precarietà delle risorse idriche, dell’aria, del suolo che sembrano crescere in modo illimitato in un ambito costante: costante è infatti il raggio della Terra. Quali gruppi umani sarebbero degni di vivere e quali no, chi debba essere escluso e chi incluso negli spazi fisici, economici, dei diritti, della stessa vita è una questione che si è posta di continuo nel corso della storia, accendendo conflitti atroci. Lo sterminio tecnologico e amministrativo potrà in futuro sembrare a qualcuno una soluzione razionale, ed Auschwitz un’anticipazione profetica. Ci guiderà la memoria? Giustamente esaltiamo la memoria contro l’oblìo. Eppure il ricordo di quanto era avvenuto nei secoli – i roghi, le espulsioni, i progrom… – convinse molti che il nazismo rappresentasse una manifestazione aggravata di barbarie passate. Ma non era soltanto così. La “soluzione finale”, il genocidio, per troppo tempo non venne creduto da molti perché nessuna memoria ne forniva l’esempio. La memoria infatti è anche pre-giudizio. Ci aiuta a prevedere il prevedibile e in ciò è rassicurante; ma può ostacolare la percezione dell’imprevisto, e in ciò è ingannevole. Contro le fedi feroci, la fede nella memoria di quanto è avvenuto “affinché non si ripeta” non è adeguata se non è anche memoria dell’imprevedibile, coscienza del fatto che la storia non cesserà di coglierci di sorpresa, nel bene e nel male.

Sappiamo molto dei Lager, è uno dei fatti storici più documentati, eppure resta una delle esperienzepiù incomunicabili. E’ un altro mondo rispetto al nostro. Il testimone si è assunto il compito di tradurre nel nostro linguaggio civile quell’altro mondo e quell’altro linguaggio. Due universi che si escludono – la nostra esistenza e quella del Lager – pure ci si presentano l’uno come una possibilità dell’altro: dopo Auschwitz si è tornati alla civiltà, ma Auschwitz è stato partorito dalla civiltà, ha dimostrato di esserne un esito possibile: “è stato introdotto irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono”, scrive Primo Levi, e poiché è successo può di nuovo succedere. L’abbiamo visto, in altri luoghi e in altri termini. Ma la difficoltà di attraversare quel confine tra universi incompatibili non è solo nostra, è avvertita dagli stessi testimoni. Ce lo dice Primo Levi, che a pochi mesi dal suo ritorno da Auschwitz scrive in Se questo è un uomo: “Oggi, questo vero oggi, in cui sto seduto al tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute”. Questo vero oggi… Eppure, alla fine de La tregua è l’oggi ad apparire all’improvviso illusorio in una visione ricorrente nel sogno: “Sono di nuovo in Lager, e nulla è vero al di fuori del Lager. Il resto era breve vacanza o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa (…) Odo risuonare una voce ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. E’ il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, “Wstawac´”. Così finisce, di nuovo ad Auschwitz, il racconto del ritorno. Il ritorno non è che una tregua. Attraverso il sogno cogliamo la terribile trasfigurazione del bene e del male, l’ombra di Auschwitz dietro il “vero oggi”, l’evanescenza dell’oggi nell’incubo di Auschwitz. Il molto che sappiamo su quello e su altri sterminî non ce ne danno però la sensazione: siamo consapevoli ma ne restiamo estranei, o per difenderci dall’angoscia, o più semplicemente per impossibilità di comprendere l’estremo. Forse ciò che ce ne può dare un’impressione più intima viene dai nostri incubi infantili, dal risvegliare in noi l’angoscia di cui è capace un bambino quando immagina nel buio ogni possibile terrore, ogni possibile trasfigurazione di ciò che è familiare e sicuro in qualcosa di estraneo e tremendo. Il vicino che diventa inaspettatamente un nemico mortale, un popolo entro cui si è vissuto che diventa persecutore, una terra e una città che d’un tratto diventano aggressive: mutazioni che hanno accompagnato le stragi nel passato e nel presente. Anche l’arte fatica a rappresentare l’orrore di simili trasfigurazioni: non ci riesce Picasso in Guernica, dove nulla è sfuggente, tutto è in luce teatrale e manca l’angoscia del mutare perché tutto è già mutato. Ci riescono Goya, o Otto Dix nei suoi disegni sulla prima guerra mondiale. Perché non basta lo spettacolo orribile a coinvolgerci nella tragedia; è piuttosto qualcosa di insinuante e indicibile a far sì che il fatto ci attraversi, e tocchi dentro di noi quello che nella prima angoscia di esistere e sopravvivere abbiamo intuito, fin dall’infanzia, come faccia in ombra di ciò che è normale, o possibilità immanente d’un rovesciamento del mondo, d’una trasfigurazione in dolore e disfacimento di ciò che è vivo.

Virginia Cardi

Altri sguardi.

Unità minima dell’esistenza: il campo. Il sedime del campo é fatto di terra e di gesti . Archetipo di ogni comportamento é luogo ove si fissano necessità primarie; geografia essenziale nella quale il territorio, fatto di molteplici aggregazioni, si rifrange e si compone. A partire dalla sua forma quadrata o rettangolare, da questa figura regolare, le civiltà al loro nascere stabilirono leggi, fissarono divieti. Nel campo le regole si posero di necessità, a suggello dei suoi assi che uniscono opposti, che legano ciò che è separato, gli estremi del mondo. Entro i suoi confini, i suoi limiti, sorsero consuetudini civili. E confine fu il solco dell’aratro, segno che scandisce il dentro e il fuori, il sopra e il sotto. La liminarià ne è un carattere peculiare; soltanto dopo aver stabilito quei limiti vennero fondati templi, case, poi, città. Il campo, piccolo pezzo di terra, é sintesi di bisogni alimentari, di convenzioni rituali, in cui la vita nella sua temibile ciclicità é esemplata, fin nei suoi contrari: del campo si raccoglievano i frutti , nel campo si raccoglievano in povere sepolture anche spoglie mortali. I campi di Marchetti, intrisi di nero, graffiti sulla materia atemporale della pietra sono simboli, ritrovati nell’attualità del nostro pensare. Il campo adagiato sulla pietra si apre e si chiude intorno a temi antichi e nuovi. Mi pare che nell’immagine arcaica di cui si ragiona, Marchetti nello scandaglio di temi desueti, articoli come gli è abituale, un discorso. Pronunci un desiderio, vero slancio verso le stelle, quando i suoi campi sono inclinati ad accogliere qualche solitaria cometa, dove i notturni stellati abbracciano nel ricordo memorie leopardiane e visioni vangoghiane. Là erano tuffi estatici del poeta errante nella bellezza senza ragione, eppur palpitante della natura; lì una volontà di rifondazione di sé, si fissava nell’instancabile gesto del seminatore. Ma, si sa, nei poeti e negli artisti, le immagini perdono diritti di proprietà e vivono una loro vita, aprendo con un battito d’ali a nuovi sogni. Questi campi che par si librino in aria, sospinti da una qualche sete di ancestralità, sono altrove bagnati di dolore.

Il campo recintato devia da metafore felici e conduce ad un altro immaginario. Le regole di definizione del territorio, l’impianto della divisione/separazione, normati da imperativi di individuazione, di appartenenza ci fanno ragionare; pongono altri significati ai quali Marchetti ci introduce. I campi intesi comeorti-giardini nelle loro implicazioni semantiche di aperture, di orizzonti, ove nascono soli, – nell’ orto si inflette l’idea di una nascita , di una ciclicità del giorno -, si intercalano ad altri campi. Non più luoghi di lavoro e di scambio, non più spazi dove la gente conveniva a scambiare cose e pensieri – così come ancora oggi certe piazze portano questo nome- ma luoghi di segregazione, di deprivazione delle libertà. Marchetti affronta la questione di questo delicato e spesso mancato distinguo, e i fraintendimenti che ne conseguono, ben radicati nelle mentalità e nelle istituzioni: le funzioni di limite, di soglia propri del campo, e quelli di reclusione propri del recinto. Mentre mura e porte proteggono, contengono, e soprattutto accolgono qualora si rispettino i genius loci; i recinti relegano forzosamente, sono ambiti in cui l’alterità è condotta, l’identità é sospesa, fin dentro i diritti della civiltà e dell’umano. Spostando il discorso verso queste idee, Marchetti anche alla luce di autori e letture a lui care, da Foucault ad Agamben, costruisce il simbolo intorno a questioni cruciali dei nostri tempi. La domanda che rintocca mi pare essere questa: è proprio vero che la pratica della reclusione nelle sue manifestazioni più varie sia propria di un passato lontano? O in realtà sia solo abilmente mascherata nelle maglie delle società contemporanee, in apparenza accondiscendenti e democratiche? Sebbene le democrazie in Europa si mostrino sempre più multietniche, pluraliste, vecchi e nuovi sistemi di negazione dell’alterità si stanno configurando nel sociale. Il filo spinato che sinistramente si tende intorno alle case di certi carboncini dell’artista non evoca soltanto le vicende più eclatanti della storia del presente ma allude sottilmente a microstorie del quotidiano, alla nostra intimità violata, alla condizione di uno spaesamento divenuta perdurante e molto spesso non consapevole. Interessanti i paesaggi nei quali Marchetti ambienta il suo abitare solitario, spazi vuoti, che sembrano diventare anche per una certa incidenza della luce, superfici lunari. Segno forse di una voglia di andar via, o di un sguardo a distanza, a cui l’arte, oggi, dovrebbe mirare.


La Camera Verde. Ravenna Festival 1997

Aprile 1st, 2010 § 0 comments § permalink

"La Camera verde", Ravenna, Cripta Rasponi

GREEN ROOM

Dialog.

What do the faces you have collected share?

Elegance. I have never seen anything more elegant than the peach flowers by Van Gogh. He is elegant. Like the others, by the way.

At first sight you would think of death, or memory, or even melancholy and nostalgia more than of elegance itself. Can you explain more clearly what do you mean by elegance?

Perhaps don’t we seek for elegance in the way we take care of a dead person before his public exposure? Indeed this is elegance. It shows in the unusual. It is always a revelation. Even in the trivial things. Elegance is what keeps us alive or gives us the illusion of living.

Are you referring to elegance as an aesthetic category?

Marguerite Yourcenar

Elegance is the aesthetic category, as you say. All the greatest artists are elegant. And since art is made by artists, true art is the very elegant one. What, beside war, can Rossellini and Gropius share?Duchamp and Arendt? Van Gogh and Roussel? I can’t find another word but elegance.

We live in an inelegant epoch, I’d say in a very vulgar one. Cannot this term seem obsolite? A little snobbish and self-opinionated?

You are using words that I like very much even though many others are embarassed by them. But your remarke reveals a sort of justification of vulgarity. You are astonished by a lack of it which you consider snobbish. I don’t know what you mean by snobbish but to me it is not a negative word. I like secret societies – besides, they never are entirely secret. At the movies, when I see vulgarity offered in an elegant way I believe I’m spending a couple of non-vulgar hours. If the vulgarity I see to is also inelegant, then I become exclusive. One has to chose and look at the only things that are worthy of consideration. We don’t have much time.

What kind of relationship is there between François Truffaut’s chambre verte and yours?

Childhood and adolescence. And, obviously, the collection of images and the dead -who are the living inside everyone of us – worship.

In another occasion, you spoke about exile regarding your latest expressive research. Would you like to go through it again?

Unfortunately exile is silent. When words fail one is speechless and exiled. When what you thought was important has been crushed by the mallet of insignificance and by the replaceable, you become silent. The irreplaceable has been stabbed and we all are exiles. Those photos are to me icons, they longing to grab what is lost. I know the game; my words will be sifted by non-authenticity and by superfluity. But the challenge goes on and the artistic one is the only one in which there is no need to shed one’s blood. Unless some new dictatorship has already pointed at it. I’m sorry that this interview is taking a pessimistic tourn.

You always look back. Don’t you think you need to face contemporary and future time? I face it very often, mainly regarding time.

Joseph Conrad

I find absolutely anachronistic using the mouse while instead of clicking it I could talk to my computer. I believe we are far too slow. I mean that there will always be a time ahead of us. And contemporarity could be different for each of us. What do I know about contemporarity for a Lappish fisherman? What is the name of this Führer who decides what should be contemporary?

Why green?

When Trouffaut was asked about it he answered that the other colours were already taken, quoting film titles in which other colours were used. There is green even in a film by Rohmer. I wouldn’t know (there is also the green box by Duchamp); I think green has to do with organic substances and their limit, with putrefaction or unknown organic substances. I think Martians are green.

New figures join the green chamber, your collection grows. How does this work develop?

Through discovery, homage, recurrence. Like Primo Levi in the tenth year of his death, and with him the re-discovery of human dignity and elegance by means of sobriety. Inside the frames which keep the faces are shown several materials like the leaves and earth fragments I used for Vosdanik Adoian (Arshile Gorky) to evoke the memory of the Armenian land. Another Armenian sollicitated a second work: after the reading of “Otto grammi di piombo, mezzo chilo di acciaio, mezzo litro di olio di ricino” by Harutin Kasangian I dedicated an icon to him using a portrait in which he is beatifully depicted as a child. A thread ties up these figures: they talk to each other and I would like this dialogue to be understood. Take for instance the recent death of De Koonig so close to Gorky… you see, it is like a tale in progress.

This way you are building up a sort of autobiography or the personal record of a belonging.

Orphans are the most consistent collectors of the dead images. But, beside the simple idea of substitution this work is to me a gift, a way of trespassing my individuality and joining others by offering – as a sign of friendship – these unique and elegant portraits. It’s a paradox, but this happens in the most individual and subjective way: by telling one’s own story. I’d like to go back to the concept of elegance. It seems to me that you are not hinting at an external fact but at something quite different. What do you find elegant in these figures?

Walter Benjamin

Take Artaud for instance. The photos Denise Colomb took of him, show us the great artist worn-out and shockingly disquieting with his teeth broken by the shock treatment and his thinned hair. Elegance is always an inner quality, Artaud would always look elegant. Elegance is like a mark of distinction, the movements of a foregneir as Artaud has always been. One is inclined to ask how meanness and rage can coexist with elegance. When you enter the Van Gogh Museum in Amsterdam you can perfectly understand it. As you can discern it in Rembrant who painted by using excrements. Christ’s Passion is elegant, as the Mannerists well knew. Unfortunately today the word elegance is an appanage just for the stylist-artist. Elegance has its own turnover.

Isn’t it a way to exorcise suffering and pain, to deny conflicts and madness?

What we know about pain is only its representation, its construction. True pain is silent and unspeakable. He who suffers is an orphan of words. Indeed to be an orphan of words, to be speechless, produces pain and madness. And the same could be said for the unheard being embodied in a dumb speaker. It is the shame of a voice that shouldn’t speak nor be heard.

With your green room you aim to capture what is lost, as well as hold and deliver it to a widened time. Is it a sort of Monument to the Nineteenth century?

I’m quite conscious of my art’s and my personal limits. I never deceive myself. If to Baudelaire everything was half true and half ephemeral, right now we have already eaten fifty per cent of the truth. Art has placed itself in the deadly and thoughtless grinder of pettiness (“Let’s get petty!” Totò was saying) and we have to face it. And everyone is free to make his own choice. To believe in a widened time, as you say, or into immortality, as I’d rather say, is certainly a hard one. But I like the word monument as well as monumental. Indeed, as a child, when I lived in Pescara, my favourite game was a monument: I used the one in Piazza Cicerone as a slide. At the end my monument to the Nineteenth century is a game too.

Dialogo

Cos’è che accomuna i volti da lei raccolti?

L’eleganza. Non ho mai visto nulla di più elegante dei fiori di pesco di Van Gogh. Lui è molto elegante. Come lo sono tutti gli altri personaggi del resto.

Al primo momento non si penserebbe all’eleganza ma piuttosto alla morte, alla memoria, alla melanconia o alla nostalgia. Può spiegare meglio cosa intende per eleganza?

La cura della persona del morto prima dell’esposizione non cerca forse l’eleganza? L’eleganza è appunto questo. Essa appare nell’inconsueto. E’ sempre una rivelazione. Anche nelle cose più banali. L’eleganza è la cosa che ci tiene in vita o che ci lascia illudere di vivere.

Lei si riferisce all’eleganza come una categoria estetica?

Primo Levi

L’eleganza é la categoria estetica, come dice lei. Tutti i grandi artisti sono eleganti. E siccome l’arte la fanno gli artisti la vera arte è quella molto elegante. Cos’è che potrebbe accomunare, a parte la guerra, Rossellini e Gropius? O Duchamp e Arendt? O Van Gogh e Roussel?… Non so trovare altra parola che eleganza.

Stiamo vivendo in un’epoca molto poco elegante, direi anzi molto volgare. Non potrebbe apparire troppo desueto questo termine? Snobistico e un pò esclusivo?

Lei usa tutte parole che mi piacciono mentre altri se ne vergognano. In ogni caso la sua considerazione rivela che in fondo lei la volgarità la giustifica. Ciò che la stupisce è la non volgarità, che considera snobistica. Non so che significato attribuisce alla parola snobistico ma io non la trovo negativa. A me piacciono le società segrete, che poi segrete completamente non lo sono mai. Se vado al cinema e vedo che la volgarità mi viene presentata con eleganza allora credo di aver passato due ore non volgari. Ma se chi mi sta parlando oltre a dire volgarità è anche inelegante ecco che allora divento esclusivo. Bisogna scegliere e guardare le sole cose che contano. E di tempo non ce n’é molto.

Che relazione c’è tra la sua “camera verde” e quella di François Truffaut?

L’infanzia e l’adolescenza. Poi, naturalmente, la collezione delle effigi ed il culto dei morti che sono poi i vivi dentro di noi.

In un’altra occassione, sempre in relazione a questa ultima ricerca, lei ha parlato di esilio. Ne vuole parlare ancora?

Purtroppo l’esilio è muto. Si è in esilio quando le parole non bastano più, si è ammutoliti. Quando molte cose che ti sembravano importanti sono state schiacciate dal maglio dell’irrilevanza e del sostituibile si rimane muti. Si è accoltellato l’insostituibile e siamo in esilio. Quelle fotografie per me sono icone che vogliono afferrare ciò che si è perduto. Conosco il gioco; anche queste mie parole saranno setacciate dall’inautenticità, dal superfluo. Ma la sfida continua ed è l’unica, quella artistica, ove non venga versato del sangue. A meno che qualche nuova dittatura ha già puntato il dito. Mi spiace che questa intervista prenda una piega pessimistica.

Lei è rivolto sempre all’indietro. Non crede che bisogna fare i conti con l’epoca contemporanea, ci piaccia o no e con il futuro?

Ci faccio i conti spesso, soprattutto per la questione relativa al tempo. Trovo assolutamente anacronistico il clik, ed il doppio clik, del mouse del mio computer quando con questo potrei parlarci. Io credo che stiamo andando troppo lenti. Con questo voglio dire che ci sarà sempre un momento davanti a noi. E poi la contemporaneità può essere diversa per ciascuno di noi. Cosa so io della contemporaneità del pescatore lappone? Come si chiama questo Führer che decide cos’è contemporaneo?

Perchè il colore verde?

Michel Foucault

Quando fecero questa domanda a Truffaut questi rispose che gli altri colori erano già occupati, citando dei films nei cui titoli apparivano altri colori. Anche in un film di Rohmer c’è di mezzo il verde. Non saprei, credo che il verde abbia a che fare con l’organico e i suoi limiti, con il putrescente o con sostanze organiche che ancora non si conoscono. Penso che i marziani siano verdi.

Nuovi personaggi entrano nella camera verde, la sua collezione cresce. Come si costruisce questo lavoro?

Una scoperta, un omaggio, una ricorrenza. Primo Levi dopo dieci anni dalla sua morte ad esempio e con lui la riscoperta della dignità umana, dell’eleganza nella sobrietà. Dentro le cornici che custodiscono i volti appaiono alcuni materiali come le foglie e i frammenti di terra che ho usato per Vosdanik Adoian (Arshile Gorky) per evocare il ricordo della terra armena. Da qui poi un’altra icona dedicata ad un armeno dopo la lettura di Otto grammi di piombo, mezzo chilo di acciaio, mezzo litro di olio di ricino di Harutiun Kasangian, che presento in una sua immagine da bambino stupenda. C’é un filo che lega questi personaggi, dialogano l’uno con l’altro e vorrei che questo si capisse. Ad esempio la recente scomparsa di De Kooning molto legato a Gorky…è una narrazione continua.

In questo modo lei sta un pò costruendo una specie di sua autobiografia o la storia personale di un’appartenenza.

Sono gli orfani i più asidui raccoglitori delle immagini dei morti. Ma al di là del semplice concetto di sostituzione per me questo lavoro è un dono, un modo per oltrepassare la mia individualità e mescolarmi con gli altri donando, in segno di amicizia, queste effigi esemplari ed eleganti. Paradossalmente questo avviene nel modo più individuale e soggettivo che esiste: raccontando se stessi.

Vorrei tornare al concetto di eleganza. Mi pare che lei non alluda ad un fatto esteriore ma a qualcosa di diverso. Cosa trova di elegante in personaggi così diversi?

Artaud ad esempio. Le foto di Denise Colomb a Rodez ci mostrano il grande artista consumato e scandalosamente inquietante, con i denti distrutti dagli elettroshòck e i capelli ormai diradati. In effetti l’eleganza è un dato interiore perchè Artaud appare sempre elegante. L’eleganza è segno di distinzione, è la movenza di chi è straniero sempre, come lo è Artaud. Ci si domanda come bassezza e furore possano coesistere con l’eleganza. Quando si entra nel museo Van Gogh ad Amsterdam si capisce molto bene cos’è l’eleganza. Come lo si capisce in Rembrandt che dipingeva con lo sterco. La Passione del Cristo è elegante, come sapevano bene i manieristi. Oggi purtroppo la parola eleganza è solo appannaggio degli stilisti- artisti. L’eleganza ha il suo fatturato.

Non è un modo per esorcizzare la sofferenza, il dolore, per negare la conflittualità, la follia?

Del dolore non conosciamo che la rappresentazione, anzi la sua costruzione. Il vero dolore è muto e incomunicabile. Chi soffre è azzittito. Anzi è proprio l’essere azzittito, l’essere ammutolito, che produce dolore e follia. La stessa cosa si può dire per l’essere inascoltato che rappresenta l’ammutolito parlante. Scandalo di una voce che non dovrebbe parlare nè essere udita.

Con la sua camera verde lei vuole dunque afferrare il perduto, come trattenerlo e consegnarlo ad un tempo più lungo. E’ una specie di Monumento al Novecento?

Sono ben consapevole dei miei limiti e di quelli del mio lavoro; non mi faccio illusioni. Se per Baudelaire tutto era per metà vero e per metà effimero oggi ci siamo mangiati il restante cinquanta per cento del vero. Anche l’arte passa nel tritacarne micidiale e leggero del futile (“futilizziamoci!” diceva Totò) e bisogna prenderne atto. Poi ciascuno faccia le scelte che vuole . Credere dunque ad un tempo lungo, come lei dice, o all’immortalità, come dico io, è certamente arduo. Però la parola Monumento non mi dispiace, come pure la parola monumentale. In fondo da bambino, a Pescara, in Piazza Cicerone, era proprio un monumento il mio gioco preferito, che utilizzavo come scivolo. Anche il mio monumento al Novecento in fondo è un gioco.

La linea d'ombra
Franco Masotti
(testo scritto in occasione della mostra “La Camera Verde” nell’ambito delle manifestazioni per il Ravenna Festival, Cripta Rasponi, luglio 1997)

Caro Antonio,

si avvicina il giorno della nostra partenza. Abbiamo preparato tutto, meticolosamente, discusso tutti i particolari, studiato tutti i tragitti, le tappe, le mete, ma come sempre in un viaggio si prova quel senso di ansia per lo spaesamento a cui andiamo incontro.

Ogni partenza è un grado zero, una epoché, ci si svuota per essere poi nuovamente riempiti da ciò che vedremo, da ciò che udremo, da quanto incontreremo sul nostro cammino.

Ci porteremo dietro ciò che conta, nulla di più, il resto, ciò che è superfluo, lo lasceremo alle nostre spalle. Rimarranno solo residui di udito, di vista (Hörreste, Sehreste) e dopo aver attraversato in una dolce ansietà d’Oriente il Bosforo-Marmara-Dardanelli che separa l’Europa dall’Asia (ma separa davvero? (aggiungeva l’esule Iosif Brodskij), seguendo le sparse tracce lasciate da Mandel’stam sicuramente il nostro padiglione auricolare si affinerà e si arricchirà di una nuova voluta. Nella nostra valigia troveranno posto solo i libri e quelle foto che tu hai raccolto amorevolmente, con devozione, incorniciate con l’eleganza di altri tempi, che misura il senso del rispetto, dell’ammirazione assieme a quello della lontananza da ciò che ci manca. Sono le effigi dei grandi esuli, dei visionari, degli sconfitti dall’atrocità della storia e dei vincitori sul cieco spirito del tempo, dei naufraghi e degli ebrei erranti. Gli armeni lasciavano la loro terra con i libri cuciti nelle loro vesti, per loro il libro era sacro come sacro era il canto che accompagnava il loro cammino.

Dunque seguiremo vie dei libri e vie dei canti, fino a quando nel nostro mobile orizzonte si staglierà scabro e terribile – ma pure così invitante – il profilo del Caucaso, il nostro Monte analogo. Lì, condannato ad un atroce supplizio, era incatenato Amirani, il “fratello” georgiano di Prometeo, colpevole di avere donato agli uomini il fuoco. Altri uomini ci hanno donato parole, pensieri (e suoni, immagini) che ci illuminano e ci riscaldano nella lunga notte della vita, non li ripagheremo con l’oblio, ma daremo forma alla nostra memoria grata con nuovi/antichi riti, liturgie dell’anima, piccoli ma intensi atti di laica devozione. Per tutto questo ci è necessario il silenzio e la lentezza, che anche tu ami e persegui nel tuo lavoro ostile al rumore che tutto annulla e rende identico, ed alla velocità.

Vorrei condividere con te queste belle parole di Kundera (leggendole non ho potuto non pensare alle tue pagine sulla lentezza):
…dar forma a una durata è l’esigenza della bellezza, ma è anche quella della memoria. […] C’è un legame fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio… il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio. […] La nostra epoca si abbandona al demone della velocità ed è per questo motivo che dimentica tanto facilmente se stessa. Ma io preferisco rovesciare questa affermazione: la nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità; se accelera il passo è perché vuol farci capire che ormai non aspira più ad essere ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata di se stessa; che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria. É questo lo spirito che aleggia nella tua “Camera verde”, appena vi sono entrato non avrei più voluto uscirne, hai creato una dimora silenziosa per le nostre comuni memorie, per le nostre affezioni. Le hai volute generosamente condividere con altri compagni di strada invece che tenerle solo gelosamente custodite dentro di te. In questo non hai tradito affatto la tua missione di “scultore”, nel senso che Heidegger dava alla parola scultura, intesa come “libera donazione di spazi”. Ma ho ritrovato anche qualcosa dell’amato Tarkovskij, perché hai saputo “scolpire il tempo”, occuparne la durata scandendola in questa teoria di mute effigi di “testimoni del tempo”.
L’importante, in fondo, è ritrovare il tempo, e non lasciarlo così come lo si trova. Concludo questa mia lettera con queste frasi di Maria Zambrano che sanno cogliere con lacerante esattezza lo spirito dell’esilio (ricordi Exil di Kancheli?), come condizione universale dell’esistenza:
Comincia, l’iniziazione all’esilio, quando comincia l’abbandono, il sentirsi abbandonato; cosa che al rifugiato non accade e allo sradicato nemmeno. Peregrinazioni tra le viscere sparse di una storia tragica. Nodi multipli, oscurità, e qualcosa di ancor più grave: l’identità perduta che reclama riscatto. E ogni riscatto ha un prezzo. […] L’esiliato si azzittisce, si rifugia nel silenzio per il bisogno alla fine di rifugiarsi in qualcosa, di addentrarsi in qualcosa. Ed è che, procedendo senza patria né casa, procede fuori di sé. […] A picco sull’orlo del suo abisso pianeggiante, là dove non ci sono strade, dove la minaccia di essere divorato dalla terra non si fa nemmeno sentire, dove nessuno lo richiede né lo chiama, errabondo come un cieco senza orientamento, un cieco che è rimasto senza vista per non avere dove andare. É il divorato, divorato dalla storia. L’esiliato è colui che più assomiglia allo sconosciuto, colui che, a forza di portare all’estremo la sua condizione, arriva a essere quello sconosciuto che c’è in ogni uomo e che il poeta e l’artista non riescono se non molto raramente a scoprire. […] L’aridità, il pianto…
Non si sa se è dallo sradicamento, o dall’esilio che in esso si viene acquistando, che quell’aridità proviene. Aridità di terra senz’acqua, di deserto senza frontiere e senza miraggi. il miraggio della sorgente che consente di bere in sogno. Di sradicamento in sradicamento, in ciascuno di essi l’esiliato va morendo, spossessandosi, sradicandosi. E così, ogni volta che riprende ad andare, si reitera la sua partenza dal luogo d’origine, dalla sua patria e da ogni possibile patria… Cammina, il rifugiato, tra macerie. E in esse, tra di esse, le macerie della storia.
Maria Zambrano, “L’esiliato” [da: I beati, Milano, Feltrinelli, 1992]

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Valeria Tassinari

E’ fin troppo eclatante che nell’arte contemporanea di questa fine secolo si sta affrontando, con modalità esplicite, il tema della morte. E se questo non costituisce certo un elemento di particolare novità rispetto ad analoghe manifestazioni che ciclicamente hanno scandito la storia dell’arte, è certamente vero che quello che storicamente è sempre stato un punto di riferimento forte per culture centrate sull’analisi filosofica della condizione umana, cede oggi alla debolezza di trasformarsi in una sorta di soggetto per esercizi di estetica.

Un estetismo “cattivo”, naturalmente, più crudo quando è levigato rispetto a quando è cruento, comunque indebolito dal compiacimento del dato anatomico, della morte come condizione corporea affrontata in quanto ultimo, estremo, tabù da violare con lo sguardo. Ma ciò che oggi è il vero tabù resta di fatto inviolato. L’inviolabile, l’innominabile, è la riappropriazione di una cultura della morte, di cui non sappiamo ritrovare le fila laddove-in apparente assenza di una cultura della vita di ampio respiro-si sono spezzate.

E’ una considerazione da cui non si può prescindere davanti all’installazione di Antonio Marchetti, che nel suo riempire di presenze il senso della morte coglie bene la necessità di questo slittamento dei termini della riflessione. Partendo da un’istanza totalmente privata, l’autore ha allestito un altare per il culto dei morti, staccando ogni rapporto con la sociologia ed il tempo reale. Per andarsene con il senso dell’abbandono potrebbe bastare, ma ad avvicinarsi quei ritratti prendono inaspettatamente un nome anche per noi, e davanti ad almeno uno di loro si vorrebbe accendere una candela, Yourcenar, Duchamp, Benjamin, Van Gogh, Artaud, Klee, Pasolini, Boetti, Kandinskij, Barthes, Conrad, Roussel, Campana….. Mai conosciuti eppure così presenti, nella vita delle nostre ultime generazioni. Non conta la loro ombra, che si è perduta, ma il segno che hanno lasciato, per cui li riconosciamo e sono ben vivi, ancora al centro della nostra cultura.

Naturalmente c’é anche Truffaut, alla cui Chambre verte l’opera è ispirata, e dedicata. Quel Truffaut ossessionato dall’ incapacità di perdere definitivamente il contatto con le ombre, perchè consapevolmente arrivato al punto della vita in cui ci si accorge di conoscere più morti che vivi. Potrebbe essere esattamente il punto in cui è arrivata la cultura artistica occidentale, che oggi frequentiamo, ognuno nella propria camera verde, senza timore, nè rassegnazione.

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La Camera verde è una collezione di volti, custoditi da domestiche cornici, e di oggetti che costituiscono i riferimenti della formazione dell’artista. E’ il risarcimento che i vivi devono ai morti, come nel film di Truffaut (La chambre verte ) a cui la ricerca si ispira. E’ un omaggio al moderno nella forma di un’appartenenza che si apre agli altri raccontando se stessi. E’ il racconto degli artisti attraverso i volti, le storie, gli oggetti, le relazioni, in una atmosfera di sacralità devozionale. La Camera Verde è l’idea di una possibile e immaginaria patria. E’ luogo della memoria europea.


“Lei ha girato La camera verde, ma perché il colore verde è così importante?

Perché tutti gli altri erano già occupati. C’è un romanzo di Simenon intitolato La chambre bleue, ce n’è un altro intitolato La chambre rouge. In realtà credo sia perché in Inghilterra esiste l’espressione “green room”. E’ uno spazio dove gli attori aspettano prima di entrare in scena. Questo spazio, nei teatri degli altri paesi non esiste e neppure in Francia. L’attore è nel suo camerino. Si bussa alla porta e gli si dice “Tocca a te”, allora si parte. In Inghilterra invece, c’è questa “green room” che è una specie di sala d’attesa.

E’ la sala d’attesa che precede la morte…

Sì, certo. Il verde si adatta bene alla morte.”

( Y.Unemoto, T. Deguchi: Intervista con François Truffaut, 1982)

 

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